Le temps qui reste

Le temps qui reste (2005), secondo film della cosiddetta “trilogia del lutto” è un film che descrive gli ultimi attimi della vita di Romain, fotografo di moda trentenne, perfettamente incasellato nel cliché del giovane omosessuale in carriera, diviso tra una vita domestica fatta di cocaina e “vero amore” e gli impegni pubblici per la prestigiosa Vogue Paris.

Tanto banali e melodrammatici i continui flashback che contrappongono alla sofferenza del presente l’idillio e la purezza del passato, quanto demoralizzante e sfibrante il finale che concede una serena morte al protagonista (alquanto improbabile) priva di sofferenza in una spiaggia deserta al tramontar del sole. Non si vuol certo imputare ad Ozon la mancanza di  un realismo che non gli è mai appartenuto, considerato da molti invece ingrediente necessario se si vuol parlare di cancro nel XXI secolo, a maggior ragione se lo si vuol fare in un film. Tuttavia ci viene un briciolo di nostalgia e un po' di rabbia se pensiamo ai suoi esordi quando, su di un impianto realistico esasperato che diventava pretesto simbolico (pensiamo alla rappresentazione della famiglia medio borghese), egli sapeva inserire l’elemento del grottesco e del surreale a scardinare e far saltare per aria tutto: ricordiamo in Sitcom – La famiglia è simpatica (antico 1998), la scena finale in cui il capofamiglia viene divorato da un ratto gigante in versione puppet o l’ozoniana interpretazione in chiave omoerotica della fiaba di Hansel & Gretel in Les amants criminels (anno successivo).


L’elemento del cliché è un elemento che interessa e forse ossessiona Ozon da molto tempo e che ha tuttavia sempre saputo rendere paradossalmente interessante ai suoi spettatori, proprio per questa sua abilità nel saperlo orchestrare con intrecci, fughe e finali imprevedibili e coraggiosi. In questo caso invece la vittima del cliché non è la presunta società da cui egli si è sempre cercato di smarcare e su cui ha sempre ironizzato, quanto piuttosto il suo protagonista. Anche l'atto del narrare è diventato parte funzionale e integrante a questa nuova società, in cui di omosessualità si può certo parlare pur tuttavia rispettando alcuni parametri. Ozon non ha saputo non cedere alla tentazione – piuttosto comune e che così spesso ci fa sbadigliare ai festival di cinema omosessuale - di spiegare l’amore omosessuale facendo appello ad almeno due dei clichè più battuti nei film a tematica queer , come quello della purezza e dell’innocenza dei suoi mitici albori (il catechismo dagli scherzi blasfemi e dell’urina nella fonte battesimale) e della datata psicologia che ne individua nei fragili equilibri familiari  l’origine (il rapporto di disistima che un figlio omosessuale nutre per il proprio padre: “Perché, papà, parli sempre delle preoccupazioni della mamma? Tu non ne hai di tue?” “Forse per abitudine.”) 

Nonostante o forse, proprio a causa, della grigia sceneggiatura, Ozon sposta, con un colpo da maestro, l’accento tragico dall’ovvio allo straordinario: non è la malattia, malattia che condanna il protagonista ad una morte  probabile in tempi molto brevi, che colora di tragico la vicenda, ma è piuttosto il silenzio e la solitudine a cui il protagonista si condanna in seguito alla decisione anti-sociale di non sottoporsi alle cure chemioterapeutiche. E’ sul tabù della morte che si innesta l’inatteso e inesorabile ritmo del film, che tra scatti fotografici rubati e gesti sordi, testimonia in modo quanto mai attuale quanto la società contemporanea sia vittima incapace di ribellarsi alla téchne, figlia stupida della scienza, che posticipa la morte al di là delle scelte e volontà del singolo.

Matteo Gemolo


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