Il Casanova, di Federico Fellini 
- recensito alla luce di una candela bianca -

"Una monaca che da due mesi vi vede ogni Domenica alla messa del Convento, desidera conoscervi. Vi aspetterà sulla riva dell’Isolotto di San Bartolo questa notte, senza domestico… e con una candela in mano.” Così Giacomo Casanova - in mezzo alle onde di un mare sintetico fatto di teli di plastica e con il brusio forte del vento altrettanto artificiale nel suo rumore volutamente snaturato - ci presenta il primo di una lunga serie d’incontri amorosi.



E’ reggendo una candela bianca in mano che Casanova ci invita a conoscere questo suo modo di amare, un amor profano che è l’amor profano per eccellenza - talmente “profano” che si mischia e si confonde con il sacro perché coinvolge una monaca, simbolo di castità cristiana – e non è forse a caso che sia proprio una candela a gettare luce su quel foglio di carta; candela dal latino candere (candeggiare), che significa “bruciare fino al bianco” e cioè: “rendere bianco”[1]. Una candela rimarcata in questa scena doppiamente, sia perché presente fisicamente come oggetto in primo piano in mano al protagonista principale del film, sia perché pronunciata a parole dallo stesso Casanova. Qui Fellini non lascia spazio a fraintendimenti: l’amore che accende Casanova, è sì un fuoco di passione che arde e che tutto consuma, ma è allo stesso tempo anche la fiamma più modesta di quella candela: umana, limitata e candida.

Con questa candela in mano il gentiluomo veneziano attira e guida l’imbarcazione che porta la monaca all’isolotto di San Bartolo. Una volta sbarcata sull’isolotto però i giochi s’invertiranno e non avrà più Casanova il compito di indicare la strada alla donna bensì sarà la monaca a scortare l’amante all’interno della sua dimora; e lo farà ancora illuminando il suo percorso con un lumicino; quest’ultimo tuttavia è di natura diversa dalla candela di prima, diremmo tecnicamente più evoluto rispetto alla disadorna e modesta candela. La monaca regge infatti in mano un rudimentale strumento composto da lungo bastone al cui termine v’è una candela accesa; questo tipo di fuoco è un fuoco più sicuro e cauto, alimenta fiamme che non possono offendere e bruciare, è un fuoco che si tiene lontano dalla mano; ed è un simbolo di una presa di coscienza, di una nuova consapevolezza. La donna è ben conscia del rischio che si corre a starsene troppo vicini al fuoco - che sia questo l’elemento naturale o il fuoco dell’amore - ed è per questo che usa un artifizio diremmo “tecnologico” che altera la natura stessa della candela del più primitivo Casanova per continuare a godere di quella luce senza però ustionarsi; lo si vedrà alla fine di questo episodio quanto differenti siano i fuochi che accendono i due personaggi; Casanova sarà costretto ad abbandonare la villetta dell’Ambasciator francese (amante della monaca che assisterà nascosto dietro le mura della stanza all’incontro amoroso) in tutta fretta una volta che l’atto sessuale sarà consumato e rimarrà frastornato dall’insistenza che la donna avrà nel buttarlo fuori casa; Casanova con la sua candela in mano è già rimasto scottato dall’amore che tiene tra le mani fin dalla sua esperienza, mentre la monaca terrà lontano Casanova dal suo cuore tanto quanto lontano teneva la candela con quel suo lungo artifizio.



Un’altra candela compare poi nell’episodio successivo; questa volta spenta. Si tratta di una candela posta al centro di una tavola imbandita per un pranzo tra Casanova e la sua compagna. Una candela che si pone in mezzo ai due come a separarli, irrigiditi ognuno nel proprio ruolo come intenti a recitar la farsa dell’amor coniugale.



E poi vi è la candela che si affianca al fuoco dirompente di un calderone e che in questa relazione dinamica con quell’oggetto si mostra in tutta la sua piccolezza e fragilità; da una parte le alte e primitive fiamme di un focolare che brucia tutto ciò che c’è di combustibile, dall’altro lo stoppino che ordina e dirige la singola e flebile fiamma. Entrambe si scuotono al vento, ma rappresentano due maniere diverse, anzi opposte di bruciare; disordine contro ordine, illimitato contro limitato. In una scena d’amore come quella tra Casanova e una giovane trevisana di pelo rosso (come lo stesso Casanova la descrive), si gioca la battaglia tra la popolana e l’aristocratico, tra la ferinità e la raffinatezza, tra basso e alto, natura e cultura.



Ed è ancora la candela, anzi la moltitudine di candele di diverse forme e dimensioni che tutte insieme creano quell’aura mistica e funerea adatta allo svolgimento di un rito - in onore a Osiride e altre divinità mortuarie - che condurrà la Marchesa Durfé dall’amplesso alla morte. Ecco il mio rifugio, la mia chiesa segreta, l’abitazione interiore, il mio laboratorio magico con queste parole la Marchesa introduce Casanova nelle sue stanze per sedurlo e per rivelargli il suo piano di morte. In questo palcoscenico, la fiamma delle candele rischiara ogni angolo e due sono i momenti emblematici in questo episodio: il primo quando il Casanova si staglia davanti ad un gruppo di candele riflesso in uno specchio che, come in un rito, declama la seguente preghiera: “l’amore genera la fiamma eterna sia divina che umana”; il secondo quando Casanova indossa sul capo una corona di candele, poste a cerchio attorno ad uno specchietto tondo. 



E se il fuoco del candelabro a forma di capitello viene riflesso da uno specchio sul muro dietro le spalle del gentiluomo, le candele sul suo capo moltiplicano le proprie fiamme sullo specchietto che vi è posto in mezzo. Il riflesso inventa per questo rito pagano la necessità di riprodurre e di accrescere quella luminosità che nelle candele rimaneva limitata. 

Merita di esser analizzato l’ultimo episodio in cui l’oggetto “candela” è ospitato, libero di lasciare le stanze da letto e di entrare in un campo semantico apparentemente diverso; non si ode più l’ansimare delle voci maschili e femminili che si intrecciano in un canto amoroso ma il silenzio tombale tipico di una fine rappresentazione; siamo qui a teatro.
Casanova è solo in platea quando tutto il resto del pubblico se n’è già andato (a parte la madre che si vedrà poco più tardi appollaiata su uno dei balconcini di prim’ordine) ed è circondato da degli enormi lampadari, calati dal soffitto e pronti a esser spenti.  Con questo episodio si anticipa simbolicamente la conclusione delle peripezie amorose del gentiluomo veneziano inserendo all’interno del film un “si cala il sipario” a mezz’ora dalla reale fine della pellicola. Tante le candele che si spengono sui lampadari di quel teatro, quante le storie amorose che Casanova ha vissuto durante tutta la sua vita e il suo peregrinare. Non a caso l’incontro-chiave con la madre avviene a luci spente, perché la madre rappresenta per il gentiluomo veneziano l’unica donna di tutta la sua vita che può essere amata senza la compagnia di quelle sensuali luci.
Dopo questo episodio Fellini non ci parlerà più di altre donne. Per lo meno, di alcuna donna in carne e ossa.
Il flirt conclusivo, infatti, coinvolge una bambola meccanica, una donna senza anima, perfetta nella forma e paradossalmente eterna amante fedele; utopia dell’amore che Casanova inseguì nelle stanze di “tutte” le donne del mondo, sempre alla luce di una candela bianca da cui mai si stancò di farsi scottare; un eccezionale carillon antropomorfo, degno compagno, unico a cui si può consacrare – con tanto di benedizione papale e di mamma - l’ultimo ballo sotto un Canal Grande posticcio marchiato teatro 5 di Cinecittà.


Matteo Gemolo

Commenti

Post popolari in questo blog