Berlino da Ruttmann a Schadt: il Canto della Metropoli

Immaginare un cinema diverso è forse possibile? Diverso da cosa? Un cinema che non tragga le proprie trame dal plot dei romanzi, che si sbarazzi di naturalismo, verismo ottocenteschi; che sia cinema d’arte senza ricalcare i drammi shakespeariani e che si lasci ispirare, non più dalla letteratura, bensì da altre discipline artistiche. Che amputazione dovrebbe sopportare il cinema se rinunciasse a ciò che la tradizione del novecento ha strutturato come nucleotidi del suo codice genetico? Abdicare dalla logica lineare e cronologica degli eventi che ne costituisce la tradizionale narrazione dei fatti, fino al punto di privarsi dei tanti abusati flashback che diventerebbero inconsistenti senza tale struttura; astenersi dal tratteggiare i propri personaggi intendendoli come maschere simboliche, voci di una dialettica scontata ma ancora così seducente che, con lambrosiano afflato, tende a cercare infinite corrispondenze tra elementi fisici e tarature morali; infischiarsi di rasserenare il pubblico, monopolizzando la sua limitata attenzione verso le gesta di uno o pochi eroi, attori in celluloide di una realtà virtuale che si fa modello da imitare; ricusare infine il narratore, autodiegetico o allodiegetico che sia, poiché privato dell’argomento da narrare e ammutolirlo poiché immemore del linguaggio atto a delinearlo. Insomma, una volta destrutturato il cinema nelle sue più intime fondamenta lo possiamo immaginare nudo?

Certo è vero, il cinema inteso come mera sequenza e riproduzione d’immagini, sarebbe privo d’interesse se non fosse sostenuto da un’arte terza che gli permettesse di essere altro da sé senza rinunciare a divenire se stesso; ambiguo è il cinema che sa essere immagine senza essere semplice visione e che è narrazione senza essere per questo solo scrittura. Il cinema così descritto, appare come una forma dal profilo indefinito, forma-informe suscettibile di variazioni che lo portano ad essere molte cose insieme senza mai essere qualcosa da solo, ed è per queste ragioni che il cinema è, tra tutte le arti, la più rappresentativa del secolo scorso. È nel vuoto che il cinema produce quando la macchina da presa si accede, pronto a stampare sulla retina dello spettatore il moto delle immagini, in quella solitudine che da solo non può colmare, che le arti – e in particolare la letteratura – prendono posto accanto ad esso. Vuoto in cui le “vecchie” arti, gravate da reumatismi secolari, trovano nuovo comfort. La pittura divendando fotografia. La musica, colonna sonora. La poesia, sceneggiatura.



Sforziamoci per un momento ad immaginare di disinnescare quello che per un secolo è stato il meccanismo portante che nel cinema ha legato illusione a rappresentazione. È poi così difficile pensare di sostituire la narrazione dialettica dei fatti con qualcosa d’altro? Il contenuto di un film affrancarlo dal discorso dialettico tra personaggi e, al suo posto, assurgendolo non più alle strutture narrative bensì, per esempio, a quelle musicali?  Berlino, sinfonia di una grande città di Walter Ruttmann è una pellicola del ’27 che realizza con le note di Edmund Meisel proprio questa operazione. Il susseguirsi di immagini di Berlino, atomizzate in frammenti visivi senza alcuna pretesa narrativa, che seguono fedelmente solo il percorso naturale delle ore del giorno dall’alba alle ultime luci della notte, sono significative e dense di emozioni proprio perché “spiegate” solo e unicamente dalla musica del compositore austriaco.


Spogliato dalle vesti della narrazione in senso discorsivo, il film, attraverso la musica, ha la possibilità, e la esaurisce perfettamente, di proporci i simboli di una mitologia d’inizio secolo nella loro ambiguità morale, senza la fatica o la pretesa – a seconda dei punti di vista – di spiegarci eticamente se quelle cose che noi vediamo siano “bene” o siano “male”. La velocità e l’efficienza dei trasporti (in primis della locomotiva a vapore), il progresso della tecnica delle catene di montaggio, il benessere che la media-piccola borghesia trae dallo sviluppo industriale, la forza dell’addomesticamento della natura all’uomo (simboleggiata dalla presenza di animali esotici al guinzaglio), l’ordine e la pulizia che regna sulle strade di Berlino fin dall’inizio della giornata lavorativa, sono gli idoli di una società che, nella visione ruttmanniana, incarnano i personaggi di una nuova mitologia. La musica qui non ha le proprietà della decorazione o dell’enfatizzazione retorica tipica delle colonne sonore, bensì si sostituisce alla voce del narratore e spiega il senso di quelle immagini senza consegnarci la chiave morale che fa spesso fare al film la fine del romanzo.

Il percorso qui intrapreso da Ruttmann nel ’27 non è rimasto, per fortuna, senza frutti; ultimo nel 2002 un documentario che Thomas Schadt intitola ancora una volta “Berlino, sinfonia di una grande città”. 
Nonostante un’ispirazione sincera che non tradisce una comunanza stilistica e un’intenzione estetica che, dopo quasi un secolo, possiamo ancora spiegare come “nuova”, le differenze con il film degli anni trenta sono molte ed eloquenti. L’inizio del film di Schadt ripropone le immagini dei fuochi sul cielo di Berlino, con cui capitolava il film del ’27, stabilendo tra i due una connessione esplicita; purtroppo, questo incipit rimane l’unica occasione sfruttata da Schadt per richiamarsi alla poetica del lungometraggio del maestro tedesco. Da quel momento in poi, tutto cambia: registro e significato. Lo si capisce guardando il disordine creato dagli abiti indossati dai cittadini di Berlino che corrono fuori dalla loro prima metropolitana del mattino, dai volti che sconfessano una sicura stirpe ariana, dalle automobili parcheggiate che invadono il centro storico. Certo, ci sono cose che sembrano non essere mutate: la catena di montaggio che produce il pane (molto più pane), le sigarette (molte più sigarette) o le immagini di alcune feste dove eccentricità e lusso fanno dell’alta borghesia berlinese l’immagine vivente del benessere. 
Ma è proprio la musica che conferma poeticamente e sostanzialmente che tutto è cambiato; non tanto a livello tecnico o stilistico, quanto piuttosto nel suo relazionarsi alle immagini, che costituisce del film la sua chiave di lettura. La musica fa qualcosa che nella pellicola di Ruttmann non si sarebbe mai permessa e immaginata di fare, ovvero diventa commento, talvolta semplicemente descrittiva altre volte analtica, sulla falsa riga di una semplice colonna sonora.


E quel che è peggio, il contrasto tra visione e musica si fa critica morale: quando le immagini che riprendono le catene di montaggio vengono sgranate e, seguendo la fluidità e la dolcezza della musica, appaiono vicine al ritmo naturale della vita, il potenziale musicale viene di colpo annichilito di fronte al pensiero critico del regista con cui è orchestrato e manipolato; la musica si appiattisce a narrazione fragile ed infantile come se una voce fuori campo spiegasse a dei bambini le immagini di un documentario di scienze naturali. D'altro canto, anche la storia del cinema è come tutte le storie un semplice cumolo di macerie, con i suoi vincitori ed i suoi vinti. E Schadt non sembra essersi ribellato a questa dialettica. Tendando di mascherare le contraddizioni di una capitale come Berlino dove, al benessere glorioso di pochi (nella Berlino degli anni trenta), si sostituisce un’apparente e disordinata fiducia di tutti nel nuovo secolo, Schadt cade nella trappola che il film di Ruttmann aveva magistralmente evitato: questa nuova pellicola non riesce a svincolarsi dal discorso normativo e descrittivo del cinema tradizionale, in senso todoroviano; sebbene la sola presenza del materiale sonoro inarticolato ed evocativo invitasse alla rinuncia di una “spiegazione” dei fatti, Schadt non è riuscito a seguire il suo maestro Ruttmann lungo quella strada solo tracciata ma mai interamente battuta che cerca di assegnare al cinema una definizione alternativa ed autonoma. 

Matteo Gemolo


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