Ibéria di Claude Debussy e l’Orientalismo in Europa


Pare bizzarro utilizzare un termine come “orientalismo” - che generalmente indica un approccio e un interesse nei confronti di culture extra-europee - in riferimento ad un territorio come la penisola iberica che, senza alcun dubbio, costituisce parte fondamentale dell’Europa moderna. Per capire come l’orientalismo possa avere senso in questo contesto dobbiamo prima di tutto capire chi fossero e a che periodo storico appartenessero gli “occidentali” che osservavano il territorio spagnolo con lo stesso identico stupore di chi osserva qualcosa di esotico. Ecco cosa scrive James Parakilas a tal proposito: 

It was the French who needed Spain to be exotic. They had long looked to their Latin neighbours, especially the Italians, for cultural leadership. (…) The exoticizing of Spain, in other words, was part of a larger process by which artists in northwest quadrant of Europe – especially French artists – turned the rest of the continent into an exotic cultural margin, or borderland, between themselves and the utterly alien cultures beyond Europe.[1] 

Si parla qui della Francia che attraverso le conquiste Napoleoniche cercò di sottomettere il sud europeo:

The Napoleonic Wars gave the French not just a general motive for exoticizing most of Europe, but also an experience of Spain that would model for them a new image of Spain as an exotic locale. This experience, anything but exotic in itself, was Napoleon’s invasion and occupation of Spain, lasting from 1808 to 1813.[2]  



Attraverso queste conquiste vi fu un diffondersi di stereotipi sulle culture sottomesse; questo non fu un fenomeno tipico che riguardò soltanto la Spagna. In generale possiamo dire che l’orientalismo è il tentativo di ”esotizzare” delle culture in qualche modo distanti e vicine allo stesso tempo - rappresentando in questo caso la Spagna sia l’Oriente che l’Occidente per i popoli nord-eruopei -.


Grazie a diversi mezzi artistici, musicali, letterari o semplicemente documentaristici l’occidente si affaccia all’oriente e cerca di “avvicinarlo” al proprio osservatorio. La Spagna offre ai proprio osservatori francesi uno degli intermediari più vicini:



Spain itself represented an intermediary exoticism, a more manageable, imaginable exoticism than that of Japan or Fiji or Timbuktu, an exoticism with both its European and its non-European sides, a meeting ground for Don Josés and Carmens. It was an exoticism worth pursuing in the industrial age because it represented a part of Europe that still had a soul.[3]


Assegnando alla Spagna un’”anima”, la Francia si avvicina alla penisola iberica con un approccio tipicamente imperialista. In questo processo di “avvicinamento”, se è pur vero che fu presente un interesse genuinamente filantropico e una volontà pura di comprensione del diverso. – che spesso si configurò attraverso la costituzione di “personaggi” o “situazioni” positive di quella cultura, come nel caso della Spagna con personaggi quali El Cid, Don Quixote, Don Juan o con simboli come quelli della chitarra spagnola quale strumento musicale aristocratico per eccellenza inserito nella cornice della serenata che il caballero fa sotto il balcone della sua princesa[4] – vi fu allo stesso tempo una distorsione, una volontà di dominio e controllo spesso accompagnata da una reazione difensiva e reazionaria allo stesso tempo, come Edward Said spiega nel suo Orientalismo:

Si tende a non giudicare più alcunché completamente estraneo o completamente abituale, mentre emerge una terza possibilità, quella cioè di vedere le cose nuove, cose viste per la prima volta, come versioni di qualcosa precedentemente conosciuto. In sostanza, tale nuova possibilità non è tanto un mezzo per imparare, quanto un metodo per tenere sotto controllo ciò che appare come una minaccia alla nostra consueta visione del mondo. Se improvvisamente siamo posti di fronte a quello che pare un modo di vita radicalmente sconosciuto, la reazione è nell’insieme difensiva e conservatrice.[5]

Sicuramente vi fu una grande simpatia per coloro che si batterono contro Napoleone Bonaparte e dimostrarono una grande devozione e nobiltà nel loro sacrificio in nome della resistenza. Sempre Parakilas a tal proposito scrive:

François René de Chateaubriand for instance, describes the French public as responding to the Spanish fighters as if they were the leaderless Greek of Xenophon’s Anabasis[6]

Figure come El Cid, Don Quixote, Don Juan ben radicate nella letteratura e cultura francese come esempi di grandi combattenti, furono per la prima volta affiancate, dopo la conquista napoleonica, ad altre immagini della cultura spagnola private da quest’aura tipica della Grandeza de España.

Uno dei primi esempi di questi nuovi modelli spagnoli fu il tenore Manuel Garcìa. Egli giunse in Francia a Parigi nel 1809 per il suo monologo El poeta calculista e attraverso lo stereotipo del contrabandista diffuse l’immagine dell’eroe maledetto, povero e un po’ ladruncolo che, tuttavia, si batteva contro le ingiustizie e la tirannia delle autorità politiche.[7]

Un’altra importante figura fu quella della ballerina spagnola, che incarnò l’immagine della seduttrice e mangiatrice di uomini e che s’identificò con la danza del Bolero, un tipo di danza in ritmo ternario tradizionalmente interpretate da chitarra e nacchere.

Un ultimo elemento esotico che entrò nella cultura francese fu la città di Granada, l’ultima roccaforte dei Mori in Spagna con la sua Qalʿat al-ḥamrāʾ, ossia Alhambra, il famoso complesso palaziale andaluso.

Claude Debussy, nonostante fosse immerso in questo genere di cultura assetata di “Oriente”, sembrò manifestare una certa consapevolezza dei limiti di tale approccio come quando, nel commentare il concerto per pianoforte di Grieg, scrive, come riportato in articolo sulla “sindrome di Granada” da François Lesure:

Les gens du Nord deviennent insupportables quand ils se veulent être du Midi.[8]

Da quello che ci è dato sapere della biografia di Debussy, possiamo ipotizzare ch’egli abbia speso solo qualche ora in Spagna per assistere a una corrida a Saint-Sébastien, probabilmente nell’estate del 1880.

Oltre a questo non ci è dato sapere se egli abbia avuto altri contatti con la cultura spagnola diretti prima dell’Esposizione Universale del 1889 che ebbe sede a Parigi. Sempre Lesure a tal proposito scrive:

Grace à Julien Tiersot, nous pouvons avoir une idée de la musique espagnole entendue par Debussy à l’exposition universelle de 1889. Elle y occupait une place importante: musique savante, peu originale ou exécutée dans de lourdes versions orchestrales, fêtes avec deux cents danseuses “choisies parmi les plus beaux types espagnols”, parmi lesquelles on distinguait surtout la Maccarona, “petite brunette à la peau-noire, maigre et très alerte”, dont Debussy se souviendra encore en 1913 lorsqu’il rendra compte du concert donné par Arbos aux Champs-Elysées.[9]

Debussy ebbe relazioni dirette con diversi musicisti spagnoli tra cui spiccano i nomi del compositore e pianista Isaac Albéniz, con Manuel De Falla, il quale aveva un’ammirazione unica per il compositore francese, e con Ricardo Viñes y Roda, stabilitosi a Parigi nel 1887 e già amico di Maurice Ravel e futuro insegnante di composizione di François Poulenc, che divenne pianista quasi officiale di Debussy per una decina di anni.

L’interesse per la penisola Iberica fu frequentemente ravvivato da tutta una serie di documenti che Debussy raccolse e a cui ebbe principalmente accesso da Parigi. Non è di certo così straordinario pensare che le informazioni che gli uomini di cultura occidentali accumulavano nei confronti dei territori ad Oriente, derivassero non tanto da un’esperienza diretta quanto da esperienze indirette.

Ibéria, una delle suite orchestrali più a lungo lavorate da Debussy – tra il 1905 e il 1908 – nacque in questo contesto e non fu certo il primo dei lavori dall’atmosfera spagnoleggiante a cui il compositore ebbe modo di mettere mano; tuttavia, fu certamente la prima opera così organica e scritta per orchestra – sebbene originariamente pensata per pianoforte: ricordiamo tra i lavori precedenti Lindaraja per due pianoforti a quattro mani del 1901, La soirée dans Grenade,  la seconda dell’Estampes  per pianoforte del 1903, La Puerta del Vino, dal secondo libro dei Preludes. Così Parakilas su Ibéria:

The orchestration makes it particularly clear that Ibéria represents Debussy’s summation of contemporary music on the theme of Spain, each of the three parts absorbing and saluting, but also expanding on, the achievements of a recent “Spanish” work”.[10]

Quest’opera orchestrale, nonostante i diversi richiami alla cultura spagnola, è indubitabilmente di natura francese. A tal proposito Lesure ci riporta nel suo articolo le parole di Manuel de Falla:

Certes, Debussy et Ravel… se sont amusés à composer quelques “espagnolades”, d’ailleurs très réussies: mais ces ouvres-là sont quand même foncièrement françaises. Leur matière – très librement traitée – s0èclaire, par moments, de reflets hispaniques, mais l’amé reste, au fond, invariablement française. C’est là, pourtant, un domaine qu’il erat dangereux de vouloir exploit au delà de certaines limites et il faut toute la souplesse d’esprit française pour réaliser de pareilles fantaisies, sans sortir des bornes de l’art pur… mais tout de même… pourquoi préférer les reliefs de nos voisins aux bons plats de chez nous?[11]

Ibéria è una delle opere più a lungo lavorate da Debussy. Questo fatto è testimoniato da tutta una serie di lettere che il compositore spedisce ad alcuni amici e editori, dove sembra particolarmente rilevante ciò che racconta a Jacques Durand - editore di Place de la Madeleine - al quale Debussy nel 1904 darà l’esclusiva della sua produzione musicale, ricevendone in cambio una sorta di rendita.
In una lettera a Jacques Durand, Debussy si esprime così:

Ho un dente in meno, il che non cambia peraltro in nulla il mio aspetto fisico: per il resto ho ricominciato a lavorare con quella foga frammista a nervosismo che mi è peculiare, almeno in questo periodo.
Se l’ironia della sorte non ribalterà le mie carte, penso di terminare Ibéria per la settimana prossima [in realtà, passeranno due anni e mezzo prima che Debussy finisca questa seconda parte delle Images per orchestra: la partitura infatti è datata 25 dicembre 1908] e gli altri due pezzi per la fine del mese.[12]

Sappiamo con certezza che Debussy si fece spesso aiutare per alcune rifiniture, per lo più nell’orchestrazione, da André Caplet. In una lettera indirizzata al giovane compositore, Debussy scrive:

            Caro André Caplet,
            sarete forse un po’ contrariato, e a ragione, per la mia apparente indifferenza verso la vostra salute, non avendo io più avuto vostre notizie dirette… In realtà, il caro Jacques [Durand] mi ha fatto cortesemente sapere che stavate meglio, dal che ho naturalmente concluso che potevo tardare un po’ a scrivervi (che errore!). Aggiungete che ho avuto ogni sorta di noia… malattie, prove, nervi a fior di pelle… insomma, tutto quello che comporta l’orrenda vita parigina.
           Quanto a Ibéria, solo la terza parte ha sortito l’effetto voluto, con le altre due, è tutto da rifare… Sotto la direzione del vostro giovane “Kappelmeister” [Gabriel Pierné, aveva diretto il 20 febbraio 1910 la prima esecuzione di Ibéria ai Concerts Colonne], il ritmo “ultra-spagnolo” della prima è diventato decisamente “rive-gauche”, mentre i “profumi della notte” parevano uscire in sordina da sotto una traversa, come per non infastidire nessuno! Avrei tanto voluto che foste qui a condividere la mia sofferenza; leggete in tal desiderio un po’ di egoismo e molta amicizia.
           Oggi ho fatto provare le “Rondes de Printemps”… non sono solito parlarvi di musica, ma l’orchestra risuonava come cristallo, e il tutto aveva la leggerezza di una mano femminile (non pensate alle mani di Blanche Selva [La pianista Blanche Selva, allieva di d’Indy, insegnava pianoforte alla Schola cantorum][13]

Ibéria è la seconda delle tre Images per orchestra – la prima è Gigues e l’ultima è Rondes de printemps – ed è a sua volta suddivisa in tre tempi: Par les rues et par les chemins, Les parfums de la nuit e Le matin d'un jour de fête.
Appare chiaro fin dall’attacco del primo movimento che profumo si andrà a respirare per tutto il resto dell’opera.


L’uso del tambour de basque, delle castagnetts, di un tambour militaire e cymbales delle prime battute – sostenute da due fagotti e dal controfagotto - impegnate a marcare un ritmo ternario di 3/8 evoca con forza la sevillana spagnola. Parakilas afferma:

The first part, for instance, “Par les rues et par les chemins”, is Debussy’s take-off on Chabrier’s Espana. It is composed in the same fast triple meter (though Debussy does not stick to it, as Chabrier does), has the same compelling dance energy (so different from the spirit of Debussy’s “nights in the garden” music), and offers a composite impression of Spanish dance music, rather than a musical image of one locale (Debussy wrote that he was “hearing the sounds of the roads of Catalonia at the same time as the music of the streets of Granada).[14]

Per quel che riguarda l’armonia Par les rues et par les chemins comincia con una sorta di progressione incompleta. Matthew Brown in un articolo su Claude Debussy, scrive:

The former [Par les rues et par les chemins] is a classic example of an auxiliary-cadance piece: the bulk of the movement prolongs the dominant of F# with the tonic finally occurring near the end.[15]

Questo movimento ha un’introduzione in sol maggiore (batt. 1-177), una sezione B in mi bemolle maggior (batt. 178-233) una transizione al sol maggiore iniziale (batt. 234 – 271), un ponte, costituito dal materiale dell’introduzione nella tonalità d’impianto (batt. 272 – 312) e termina con una breve coda (batt. 313 – 334).

Questo è il tema principale con la sua figurazione ritmica di accompagnamento (batt. 8 – 13):

Il tema principale inizia sulla dominante, per poi passare alla sesta e finire di nuovo con dominante-tonica in sol maggiore. E’ indicato élegant et bien rythmé.

Il secondo movimento Les parfums de la nuit, rispetto al primo, ha un carattere sognante e permeato da un’atmosfera da Habanera, con un ritmo lento e non rigido, simboleggia i profumi della notte dai sapori nostalgici, melanconici e a volte anche allucinatori dell’ Alhambra, come quando introduce i glissandi dei violini sul pedale della celesta.

 
Per creare un’atmosfera sospesa, dove i suoni per essere uditi devono scavare per così dire il silenzio della notte, spesso si aggiunge la sordina per silenziare corni e trombe.



Con l’utilizzo di questo tipo di orchestrazione questo brano della durata di circa dodici minuti, rappresenta l’apogeo di tutto l’immaginario europeo stereotipato dei giardini dell’Alhambra. Sempre Parakilas scrive:

In the second part of the work, “Les parfumes de la nuit”, the contemporary music he salutes – and outdoes- is his own earlier music of nights in the gardens of the Alhambra. The outdoing consists partly of furthering the process that Ravel began – abstracting the habanera. Here, though the habanera is undoubtedly the genre behind the whole movement, no single habanera rhythm sounds continuously. Instead, fragments of habanera rhythms are heard in a hundred guises – four measures of the dotted rhythm from the tambourine here, a melody with the habanera triplet (but slowed to half the normal speed) from the French horn there. It is heard more often as a melodic than a bass rhythm, as at the opening, when the oboe plays a fragmented melody in the dotted rhythm (mm. 1-4). A whole-tone habanera melody, marked “expressive, a bit drawn out” for oboe! - It seems that Debussy is combining the habanera here with the “notes of an amorous voice” overheard from the silent Alhambra, combining, that is, the first two elements sounded in “La soirée dans Grenade” into something more abstract, less specifiable than either.[16]

Le ultime battute di questo movimento si concludono con un pedale in pianissimo dei tromboni e dei corni francesi con un “solo” di tre battute di violino, con l’indicazione scritta di collegarlo al movimento successivo. Paul Driver, in un suo articolo sul compositore francese, riporta così le parole di Claude Debussy che descrivono la conclusione di questo movimento e l’inizio del sucessivo:

You can't imagine how naturally the transition works between 'Parfums de la nuit' and 'Le Matin d'un jour de fête’. Ça n'a pas l'air d'être écrit.[17]


Le prime battute del terzo movimento Le matin d’un jour de fête descrivono, grazie al pedale dei corni francesi e un ritmo quasi accennato e singhiozzante dei tamburi baschi e militari in pianissimo e nel ribattuto dei violoncelli e contrabbassi, il risveglio e l’inizio di una nuova giornata.


Le battute successive, invece, irradiano con la loro luce in un animez peu à peu l’intero brano di festa.

Spesso sono riciclati dei motivi del movimento precedente in una chiave divertente e quasi beffarda. Un esempio ne è questo “solo” del violino a battuta 61, che prende a modello una frase  già presente in Les parfums. Tanto questo motivo in Les parfums era expressif et appuyé dans la douceur en s’eloignant, tanto diventa libre et fantasque in Le matin.


In questo re-utilizzo del materiale vecchio attraverso la loro rilettura in una serie di citazioni colte e disincantate possiamo intravedere una sorta di atto di esorcismo che Claude Debussy opera su se stesso per liberarsi, al termine di questa fatica musicale, dalla cosiddetta sindrome di Granada che l’ossessionò personalmente e che pervase mezza Europa agli inizi del novecento.

Matteo Gemolo



[1] J. Parakilas, How Spain Got a Soul in J. Bellman The Exotic in Western Music, Northeastern University Press, Boston, 1998, pp. 137 - 38
[2] Ibidem

[3] Ivi, p. 161
[4] Ivi, p. 162
[5] E. W. Said, Orientalismo, Universale Economica Feltrinelli, Roma, 2013, p.65
[6] J. Parakilas, op. cit., p. 139
[7] Ivi,  p. 138
[8] F. Lesure, Debussy et le syndrome de Grenade in Revue de Musicologie, LXVIII Parigi, p. 101
[9] Ivi, p. 102
[10] J. Parakilas, op. cit. p. 179
[11] F. Lesure op. cit. p. 108
[12] C. Debussy, I bemolli sono blu Rosellina Archinto, Milano, 2012, p. 114
[13] Ivi, p. 140
[14] J. Parakilas, op. cit., p. 179
[15] M. Brown, Tonality and Form in Debussy’s Prélude à “L’Après-midi d’un faune” Music Theory Spectrum Vol. 15 n. 2, Chicago, Autumn 1993, p. 142
[16] J. Parakilas, op. cit., p. 180
[17] P. Driver, "Debussy through His Letters" (December 1987), The Musical Times128, London, 1738, p. 687

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